Vestire il corpo, nutrire il corpo
di Antonio Caronia
Come dubitare che il cibo sia una delle componenti più importanti di ogni costellazione culturale? Come si potrebbe dimenticare che una delle ricostruzioni più ambiziose delpensiero mitico universale parte, nell'antropologia del Novecento, proprio da una"mitologia della cucina", dall'opposizione fra il crudo e il cotto? Come trascurare l'importanza degli studi sulla "cucina del sacrificio" nella Grecia classica per delineare origini e discontinuità della cultura occidentale? Come negare che uno studio della mela o del formaggio paia a volte il percorso più sicuro (anche se non il più lineare) per arrivare a comprendere il ruolo centrale del corpo nell'universo simbolico dell'uomo? Eppure... Nonmi interessa qui tanto (forse non ne sarei neppure capace) di tentare un'ennesima ibridazione fra Lévi-Strauss, Detienne, Vernant e Camporesi. Voglio fare invece una riflessione molto più modesta - e più aderente alla cronaca culturale - sulle ragioni per cuioggi, nella produzione gio rnalistica, nei progetti degli artisti, negli interessi degli sponsor, il cibo sembra avviarsi a soppiantare la moda. Perché è indubbio: la moda, che alla fine del secolo scorso era parso l'elemento più adatto ad assicurare il legame fra cultura materiale e cultura dell'immateriale, nell'immaginario oggi segna il passo, mentre salgono le azioni del cibo. Non è forse più così tanto divertente vestire i corpi, e bisogna invece prima ditutto nutrirli?
Forse la cosa non è così semplice. Come sempre, bisogna smontare, decostruire i discorsi ideologici che la cultura fa su se stessa, disco rsi che sono sempre delle giustificazioni,delle mistificazioni. Da cui molto si può imparare, certo, ma a condizione di rovesciarli, di rivelarne le motiv azioni inespresse e nascoste. È indubbio che il cibo abbia spesso giocato un ruolo importante nei momenti di incubazione e di nascita di una nuova cu ltura, quando si trattava di criticare l'idealismo retorico che identifica la cultura con i prodotti dei "pianialti" del pensiero, e di recuperare un rapporto con la materialità del corpo, con l'integralitàdei bisogni umani. Sto pensando, alle origini della modernità, a Rabelais, e alla spaventosa teoria di banchetti, mangiate e bevute del Pantagruel e del Gargantua, alla smodata capacità dei due giganti rabelaisiani di divorare schidionate di selvaggina, maialini e interi vitelli. Ma l'ingordigia e lo smisurato appetito di Gargantua, per l'umanista francese, non erano che una trasparente metafora della fame di sapere che accompagnava la nascita dell'uomo moderno. E oggi, forse è più la sazietà che la fame a caratterizzare il nostro rapporto con la conoscenza, bene abbondante e disponibile (e apparentemente facile da raggiungere) come mai prima d'ora nella storia dell'umanità - e pazienza se troppo spesso si confonde conoscenza con informazione. Forse allora bisogna andare più indietro nel tempo, e vedere se non sia la cena di Trimalcione, nel Satyricon, un possibile modello dei discorsi sul cibo che si fanno oggi. L'attuale fustigatore dei costumi troverà certo facilmente più di una corrispondenza tra la volgarità, la vana gloria, l'eccesso e l'esibizionismo messi in ridicolo da Petronio e concentrati nelle eccentriche portate di quel banchetto, e la nostra situazione odierna. E tuttavia, anche qui l'analogia ha il fiato corto, perché taglia fuori alcune delle componenti più importanti deldiscorso sul cibo che avanza oggi: quello della lentezza (lo slow food), del recupero del rapporto col territorio e con la dimensione artigianale, anti-indus triale della produzione alimentare.
Non è qui, allora, che bisogna cercare le ragioni dell'attuale fortuna del cibo come strumento di analisi (e anche di battaglia) culturale e politica. Forse l'osservazione sul simultaneo declino culturale del discorso sulla moda e l'ascesa del discorso sul cibo non è così estemporanea come poteva sembrare a prima vista, e nasconde un parallelismo chemerita di essere scavato più a fondo. Ci sono senz'altro a nche considerazioni economiche che possono avere un certo peso (le difficoltà, esasperate dall'attuale crisi, di tuttal'industria dell'abbigli amento, difficoltà che l'industria alimentare, per evidenti e ovvi motivi,soffre in misura molto minore), ma questo è un fattore che secondo me non va visto inmodo troppo congiunturale. È probabile che l'influenza della componente produttiva sia dipiù lunga durata, e abbia a che fare con le nu ove, durature caratteristiche globali delmodello produttivo, più che con situazioni contingenti.
La moda cominciò ben presto a essere introdotta nel mondo della cultura nel corso del Novecento, ma il processo ebbe un'impennata tra gli anni cinquanta e i sessanta, e il libro di Roland Barthes (Il sistema della moda, 1967) ne rappresentò un momento saliente. Poinegli anni ottanta la faccenda prese quasi l'aspetto di una santificazione, ma le radicistavano lì. Proviamo a chiederci perché la moda ebbe ques to ruolo in quel panorama culturale, sociale e politico, perché la moda diventò di moda nella cultura strutturalista (e avolte anche in quella poststrutturalista) Gli anni cinquanta e sessanta furono il culmine (però, col senno di poi, potremmo anche dire l´inizio del declino) del capitalismo classico,del capitalismo fordista, del capitalismo delle merci materiali. Ciò che contava (come nell'Ottocento, certo, ma su scala incomparabilmente maggiore) erano il carbone e l'acciaio, erano la pietra e il cemento, era la chimica pesante. Si diffondeva anche una cultura e un immaginario di materiali più leggeri, duttili e flessibili, come le plastiche; masempre di materia si trattava. L'energia, e i prodotti immateriali, c'erano già, ma erano il contorno, gli strumenti, le vie per veicolare la produzione e la distribuzione delle merci materiali. A volte servivano anche a riequilibrare una situazione altrimenti troppo schiacciata sulla materialità e la pesantezza.
La cultura aveva già assunto quel ruolo - forse l'aveva sempre avuto. Ma la cultura tradizionale - umanistica o scientifica - era qualcosa di tr oppo elitario: troppo"pesante" (metaforicamente, ma sempre pesante) per i rotocalchi. Occorrevano altri contrappesi, altri dispositivi culturali che continuassero e ampliassero la rap ida marciaverso una comunicazione per immagini iniziata, a pochi decenni di distanza nella secondametà dell'Ottocento, dai rotocalchi prima e poi dal cinema. Questo dis positivo fu latelevisione, con la sua immagine elettromagnetica, un'immagine già tendenzialmente "immateriale" rispetto a quella chimica della fotografia e del cinema. Sempre di m ateria sitrattava in ultima analisi, ma questa volta non c'era una traccia tangibile del mondo su una pellicola, non c'erano sali d'argento o emulsioni che dessero una certa consistenza all'immagine. C'era solo un cannoncino elettronico che bombardava dall'interno un tubocatodico e ricreava sulla sua superficie volti e strade, oggetti e paesaggi. È paradossale che queste immagini che non esistono, che hanno sì un referente ma non una traccia materiale su di un supporto fisico, siano presto diventate la maggiore garanzia di realtà dei corpi, del le immagini e degli eventi di cui pretendono di essere lo specchio fedele. Al contrario del grande schermo cinematografico, immerso in una sala buia e perciò foriero di un rapporto quasi magico con i volti lontani e magnificati degli attori, il piccolo schermocatodico si presentava come una finestra sul mondo reale, che drammatizzava e sdrammat izzava "la vita" senza pretendere di avere su di essa la presa simbolica (e perciò ambigua, potenzialmente mentitrice, quasi onirica) del cinema.
La televisione fu (e per molti versi ancora è) un primo elemento di immaterialità - oalmeno di leggerezza - nei confronti del mondo ancora pesante, iperorganizzato, massificato, della società fordista. Ma il capitalismo dei beni di consumo durevoli aveva bisogno di altre mediazioni fra il mondo delle merci e quello dell'immaginario, già allora interagenti ma non ancora intrecciati e mortalmente uniti come sono oggi. C'era giàl'industrial design, il design degli oggetti, certo, che svolgeva questa funzione, ma questo design era a un tempo troppo vicino alla s ingola merce e troppo pervasivo, avviluppava tutte le merci come un mantello di eleganza o le immergeva in un'aura di irrealtà. Il design affermava la differenza all'interno della s ingola merce, ma non funzionava abbastanza come elemento differenziante generale: era insieme troppo concreto, perché si presentavafuso con l'oggetto, e troppo astratto, perché costi tuiva un modello generale (ideologico, mistificato il più delle volte) del processo creativo. Ci voleva una singola merce, un singolo settore produttivo, che realizzasse simbolicamente quel carattere "sensibilmente sovrasensibile" (per dirla con Marx) della merce in generale. Questa singola merce furono i capi d'abbigliamento - e il loro carattere mistico, la loro "sott igliezza metafisica", il loro"capriccio teologico" fu la moda.
Il vestito aveva una funzione ben definita, rispondeva a un bisogno primario, ma potevaben sembrare (illusoriamente! ) un simbolo del superfluo. Richiedeva potenza produttiva,ma sembrava (specialmente quello di lusso) sfuggire alle macchine - ricreare la nostalgia di un mondo di artigiani, di prodotti fatti a mano. Naturalmente non era così. La moda diventa un fenomeno culturale quando comincia a non essere più moda, o meglio quando sfugge agli imperativi della haute-couture classica, quando i grandi stilisti cominciano apensare al prêt-à-porter - tutte cose già note, analizzate, dette e stradette. La cosa essenziale da osservare, mi pare, è che in quegli anni la mo da funzionava abbastanzabene come "copertura culturale" del sistema produttivo perché era un settore sufficientemente ibrido: era già industria ma evocava ancora l'artigianato, strizz ava l'occhio alla produzione di massa ma faceva le viste di essere dalla parte della "creatività". La sua funzione era parallela e complementare a quella del design. Partiva dall'alt o (l'alta moda) per arrivare al basso (i capi di vestiario "eleganti" dei grandi magazzini), mentre il design faceva il percorso inverso. Pensiamo allo streamlining degli anni trenta, a quegli oggetti(come dice William Gibson) che "sembravano usciti dalla galleria del vento", e a un designer come Raymond Loewy, che comincia con temperamatite che sembrano astronavi e finisce con la locomotiva S-1 che sembra il termosifone di uno schizofrenico. Non erano ancora i tempi di Philip Stark e di Stefano Giovannoni, in cui si diventa divi con uno spremiagrumi a forma di ragno che non può spremere neanche una ciliegia. Sino agli annicinquanta e sessanta il ghiribizzo serviva solo per farsi le ossa: il designer può partire dal complemento d'arredo, ma non è davvero arrivato se non disegna almeno una lavatrice -meglio una locomotiva.
Poi, però, arriva la fine degli anni settanta, e gli anni ottanta, e il sistema capitalistico cambia pelle, e forse qualcosa di più. Il sistema di produzione delle merci viene rovesciato, e con esso tutto il mondo viene messo sottosopra per l´ennesima volta - il capitalismo l´ha sempre fatto, d'altra parte, è questo il suo mestiere, rovesciare il mondo, mettere la testa al posto dei piedi e i piedi al posto della testa, e continuare a farlo, ma con i piedi e la testa che, a ogni giravolta, cambiano forma e aspetto, e nessuno li riconosce più. Nel giro di dieci, quindici anni, i settori tradizionalmente più importanti per il capitalismo, per l´attività produttiva, non sono più i settori dove si producono beni di consumo durevoli, cose belle pesanti (che naturalmente durano sempre meno, ma questo è scontato), non sono più leauto, non sono più le locomotive. Tutto questo continua a essere prodotto, ovviamente,ma non è più il cuore del sistema, non è più il settore i n cui si fanno più profitti, non è più quello che dà il ritmo e detta l'agenda a tutti gli altri comparti produttivi. Le nuove merci,quelle che contano di più, quelle che garant iscono il valore aggiunto maggiore e che crescono al ritmo più elevato, quelle che trascinano con sé tutte le altre merci, sono le merci immateriali. È arrivato il capitalismo della conoscenza, e la merce più contesa,quella più preziosa, quella di cui c´è più bisogno, è la cosa più immateriale che ci sia: la capacità linguistica, immaginativa, relazionale dell´essere umano.Il capitalismo riesce a mettere le mani, ad allungare le sue grinfie (si sarebbe detto un tempo) sulla nostra sfera più intima, su ciò che ognuno di noi ha di più personale, di più creativo, di più leggero e anche divertente anche, insomma di più immateriale. Comincia il capitalismo cognitivo-relazionale. L´attività produttiva colonizza rapidamente un territorio che sino a pochi anni prima era sottratto (almeno per certi rispetti) al processo di valorizzazione, quello che era stato il luogo tipico, il regno incontam inato dell´intellettuale. Da un momento all'altro l´intellettuale (e ogni essere umano quando frequenta i territori della cultura - che sia alta o bassa, raffinata o popolare) si trova deprivato di quella che era stata una sua riserva: assediata, minacciata, ma non ancora completamente conquistata. Va bene, questo mondo fa schifo, il lavoro è alienante, la società oppressiva, ma io posso ancora passeggiare, andare al cinema, leggere un libro, scegliere un vestito,parlare con gli amici, riflettere sugli avvenimenti, scrivere un libro. In tutto questo c'è una dimensione che, almeno per una parte, è irriducibile al processo di valorizzazione. Adesso non è più cosi. Oggi tutti noi siamo al lavoro per il capitale globale, che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, 24 ore su 24, siamo al lavoro per il capitale globale anche quando lo critichiamo, anche quando ne parliamo male, anche quando cerchiamo di decostruirne i meccanismi, per certi versi, perché il capitale ha imparato a trarre profitto anche dalle nostre attività relazionali, dalle nostre capacità linguistiche, dalla nostra sfera affettiva. Questo non vuol dire che il capitalismo sia invincibile, che la sfera del valore ciabbia ormai inglobato definitivamente, perché la completa trasparenza del simbolico - il sogno del capitale - è strutturalmente irrealizzabile, perché l´eccedenza del mondo sul linguaggio è qualcosa a cui nessun capitale può porre rimedio; e a questa eccedenza, a questa riserva di mondo, a questa inesauribilità del possibile, si può sempre ricorrere per decostruire e ricostruire il linguaggio, per sfuggire alla morsa del valore. Ma certo ci vuole invenzione, bisogna battere strade nuove e inedite - di teoria e di pratica. E tutto questo non si può più fare nel modo in cui lo fecero le generazioni di venti, trenta o quaranta annifa .
Bisogna dire che le prime ad accorgersi di questi nuovi terreni di conflitto furono le donne,negli Usa ma soprattutto in Europa, e con un certo anticipo , cioè fra gli anni sessanta e isettanta del Novecento. Il femminismo, è vero, all'inizio creò un terremoto forse più all'interno dei movimenti di ribellione e di antagonismo nei quali era maturato, che non alivello sociale più generale, ma ebbe l'enorme merito, in primo luogo di indicare il principale ambito di azione teorico e pratico nella dimensione generale del simbolico, e non nel più ristretto ambito del "sociale" e del politico, e poi di gettare sul piatto della bilancia, con grande energia, la questione del corpo, di proporre una politica dei corpi. Fu il femminismo, furono i femminismi, a intravedere per primi che l´immateriale stavadiventando il nuovo terreno di caccia del capitale, e che il conflitto tra chi ha i mezzi diproduzione e chi non li ha e vive del proprio lavoro si allargava enormemente, spostandosi su terreni che tradizionalmente erano sembrati sino ad allora estranei a quella lotta. In una situazione in cui l'ambito della cultura perde la sua autonomia tradizionale e diventa direttamente momento di conflitto economico, sociale e simbolico, in quanto interno al processo della valorizzazione, è comprensibile, mi pare, che questa stessa cultura cerchi in primo luogo di ritrovare in qualche maniera un peso, una materialità, non per rifiutare il nuovo terreno della virtualità, ma per muoversi al suo interno mantenendo un aggancio adimensioni più sicure. E che cosa c'è di più importante, di più materiale, di più basilare, che cosa determina comportamenti e immaginari al grado zero, più del cibo? Mi pare che stia qui una delle ragioni di fondo per cui il cibo diventa oggi il nuovo "oggetto culturale", o uno dei nuovi oggetti culturali più importanti da analizzare, da sviscerare, su cui costruire inuovi conflitti.
Direi che la valenza politica più importante dello Slow Food sta qui, sta nel fatto chesiccome il capitalismo si sta letteralmente mangiando il nostro immaginario, le nostre idee,il nostro linguaggio, noi dobbiamo cercare di resistere o di riportare il conflitto, la contrapposizione, la decostruzione, su altri terreni: per esempio sul modo in cui mangiamo, in cui ci nutriamo. È pur sempre vero che l´esistenza determina l´essenza, che è il nostro stomaco a determinare le secrezioni chimiche, biochimiche ed elettromeccaniche anche del nostro cervello.
È qui che possiamo, se ce la facciamo, costruire meglio le condizioni di lucidità, dicomprensione, di analisi, di inventività, per affrontare i terreni sui quali il capitalismo della conoscenza, il semiocapitalismo, ci sfida ù tutti i giorni a costruire la nostra vita. "Fare della propria vita un´opera d´arte", dicevano le avanguardie storiche ormai più di un secolo fa.Fare della propria mensa un´opera d ´arte, potremmo ripetere oggi, non - ovviamente - nel senso banale e trito del centrino della nonna, e neppure nel modo in cui - certo mistificando ma comunque denunciando un problema e aprendo un terreno - lo fece vent'anni fa la Nouvelle Cuisine di Bocuse e di Marchesi. Non era quello, non era il décor del cibo e della tavola, non era la dimensione della pietanza , non era neanche la cuisinedu marchè, la freschezza degli ingredienti e via dicendo: era tutto quello che intorno a questo girava, e che esprimeva, magari confusamente, una rivendicazione di "naturalità",di rilassatezza, di lentezza. Non solo il lavorare con lentezza del movimento del 1977, ma il mangiare con lentezza, il nutrirsi con lentezza, il rispettare e il valorizzare uno dei processi biochimici più laboriosi che abbiano gli esseri viventi, almeno i mammiferi, e cioè la digestione. Non siamo buoi o mucche, ma anche noi dovremmo imparare a ruminare un poco, e come il monaco medievale digerendo leggeva, meditava o recitava i versetti della bibbia, elevando il proprio spirito esattamente nell´ora della digestione, così oggi in qualche modo l´adepto della cucina naturale e dello slow food recupera un legame tra le funzioni più basilari e materiali e quelle più elaborate e immateriali del proprio corpo. Mi pare, insomma, che il cibo diventi un oggetto culturale centrale nell'era del capitalismo della conoscenza perché è il contrappeso più importante che si possa trovare alla smaterializzazione dei processi produttivi, all´inglobamento dell´immaginario all´interno dei processi di valorizzazione capitalistica .
Naturalmente ci sono altri fattori e non li voglio affatto sottovalutare: c´è la presenza acuta, forte, scandalosa per molti, dei migranti, delle nuove fasce di povertà che costituiscono (come già fu per gli Stati Uniti fra Ottocento e Novecento) un'insostituibile risorsa economica, e in questo senso sono molto graditi ai nostri imprenditori, che però non sono altrettanto sensibili alle condizioni nelle quali questi migranti sono costretti a erogare la propria forza lavoro. Noi li stiamo condannando, opprimendo, emarginando in un modo che è forse non solo ben più crudele , ma anche ben più sottile di quanto il capitalismo americano non abbia fatto, uno o due secoli fa, con le successive ondate dei migranti europei. Ora, come già era già accaduto anche negli Stati Uniti, anche nel caso deimigranti dell'Africa, dell'America latina, dell'est europeo, del vicino, medio ed estremooriente, il cibo è insieme un fattore di identità culturale per loro e un contributo all'ibridazione culturale (e quindi all'arricchimento) per noi. Sarà per questo che uno deipartiti più virulenti e xenofobi di questa nuova destra italiana, la Lega, fra le tante cose se la prende, a ondate successive, anche con i produttori e i venditori di kebab? Eppure l´ingresso travolgente del kebab, del cibo di origine mediorientale in tutte le sue diverse varianti, che sta invadendo le strade di Milano e Roma, di Firenze e Bari come ha già fatto da molto tempo a Parigi, Londra e Berlino, è uno dei fattori più rilevanti di mutamento delle abitudini alimentari anche degli italiani e degli europei autoctoni - oltre che un fortunato strumento di sopravvivenza per alcuni (ahimé, pochi) di loro. E dimostra (come per altri versi sta dimostrando, a livello internazionale, l'italianissima pizza) non soloquanto il cibo sia oggi un crocevia culturale di prim'ordine, ma anche quanto la sua etnicità e il suo radicamento in una tradizione non siano affatto incompatibili con la sua internazionalizzazione. Pare anzi, nel caso del cibo, che più la sua etnicità è radicata, più forte è la sua capacità di diffondersi a livello internazionale, di proporsi come alternativa al cibo locale, di funzionare da strumento di integrazioneà e di mutamento delle tradizioni alimentari autoctone.
Per concludere, direi che da un lato il cibo marca in qualche modo la rivincita del materiale sull´immateriale, segna un riequilibrio dei valori, dei pesi, delle strategie delle attività e dei comportamenti umani in una situazione in cui l´immaterialità rischia molto spesso di farci dimenticare il nostro corpo. Il cibo, moderatamente ma irresistibilmente, ci ricorda che il nostro corpo continua ad essere lo strumento privilegiato anche del nostro pensiero ,anche di quanto di più immateriale, di più nobile (o di più ignobile) l´essere umano possaprodurre.